giovedì 10 gennaio 2008

Il NYT e la tristezza degli italiani

I padri della comicità italiana si dannerebbero l’anima. Alla ricerca dell’ultima battuta valida a tirare su il morale dei loro connazionali. Ma non basterebbe. La tristezza degli italiani ha superato i confini geografici ed è arrivata fino alle nobili colonne del New York Times. E’ un caso cervellotico, che nemmeno il miglior Tom Ficcanaso, di Benito Jacovitti, riuscirebbe a risolvere: dov’è finita l’irridente, celeberrima, allegria di italica memoria?

Il best seller di Rizzo e Stella, “La casta”, assicura delle risposte valide e certificate. Il malumore e la sfiducia che attanagliano l’economia italiana sono il frutto di un distacco troppo evidente tra la classe politica e la società civile. Il tanto sbandierato dialogo, a cui entrambi i poli fanno riferimento, si ferma nei centri di potere delle città. Lontano dagli operai, dalle famiglie, dagli appartamenti in affitto, dalla prostituzione e dagli abusivi. Vicino agli zeri, almeno cinque o sei, dei soldoni. La forte partecipazione che gli italiani assicurano alle elezioni politiche (tra le più alte d’Europa, con circa l’85% degli aventi diritto), esprimono la volontà di condividere le scelte, di fare sacrifici per un progetto di cambiamento. Ma nel passaggio tra prima e seconda repubblica è rimasto fermo il modello nostrano di politica, che continua ad alimentarsi di clientelismo e non fa rima con la meritocrazia.

E non basta ammettere questo distacco. Perché le città vivono di grandi tematiche che rappresentano le sfide al futuro. Necessitano di risposte immediate. Troppo semplice affiancare la parola tristezza alla città di Napoli, con il suo incubo legato ai rifiuti e agli interessi malavitosi. Più complesso, ma ugualmente proficuo, sottolineare la necessità improrogabile di una legge elettorale che garantisca innanzitutto la governabilità. Tale da favorire un bipolarismo coerente e coordinato, dietro le figure di premier riconosciuti. Per troppo tempo, ormai, le qualità diplomatiche del capo di governo di turno sono valse da collante al fine del prosieguo della legislatura. E poi ancora, rimangono scoperti i nodi legati alle risorse energetiche, alla sicurezza, all’immigrazione, ai salari, ad un’economia che non sembra voglia riprendere a correre.

Ma soprattutto l’Italia è triste perché i suoi giovani non sorridono. Rinchiusi dentro lo spettro della flessibilità, invisibili agli occupanti di poltrone e cda, senza la speranza di una pensione dignitosa, coperti, ancor prima di iniziare a lavorare, di debito pubblico. E mentre gli spagnoli arrivano al tanto sbandierato sorpasso a livello economico, gli investimenti pubblici in ricerca e tecnologia sono fermi al palo. In attesa di un nuovo tesoretto…

“Scommettete sull’Italia, sulla nostra tradizione e il nostro spirito animale”, le parole del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, hanno il sapore amaro di una ammissione, ma rincuorano. Perché mettono in evidenza chi non si piega alle schermaglie economico-commerciali e cerca di tutelare i propri connazionali. L’Italia dovrebbe ripartire dall’orgoglio, dall’amor proprio, dal senso civico e dalla coscienza. Perché i cicli economici passano rapidamente, ma per ricostruire un grande Paese occorre innanzitutto la nobiltà d’animo dei suoi (primi) cittadini.

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