giovedì 23 febbraio 2012

Punto e virgola



Punto e virgola ; una Comunità che non vuole mettere il punto ma andare a capo.


La Comunità politica di Arcadia è lieta di invitarvi all'evento "Punto e virgola - una Comunità che non vuole mettere il punto ma andare a capo", la giornata identitaria in cui i militanti della Comunità presenteranno il Manifesto di Arcadia.

A far da cornice all'evento, la suggestiva location del Palazzo Baronale di Gavignano, in provincia di Roma.


PROGRAMMA.

Ore 9:30– Arrivo

Ore 10:00 – Apertura della giornata: “ Punto e Virgola” una Comunità che non vuole mettere il punto ma andare a capo.

Intervengono: Fabio D’Andrea e Alessandro Caruso.

Ore 10:30 – Inizio lavoro commissioni:

- Territorio: coordinano Michele Mannarella e Simone Sassetti

- Cultura: coordinano Gabriele Rizza e Matteo Smacchi

- Università: coordinano Giuseppe Romano (CDA dell’Università di Roma “ La Sapienza”) e Liano Magro (Esecutivo Nazionale di Azione Universitaria)

Ore 13:30 – Pranzo

Ore 15:00 – Plenaria. Presentazione del Manifesto della comunità Arcadia

Modera: Jennifer Gridelli

Presentazione del Manifesto: Gabriele Rizza

Interventi e dibattito

Conclusioni: Alessandro Petroli


una Comunità che non vuole mettere il punto ma andare a capo

giovedì 16 febbraio 2012

Gabriele Sandri, giustizia giusta

Due giorni fa la Cassazione si è pronunciata sul processo Gabriele Sandri, ucciso dall'agente di Polizia, Luigi Spaccarotella, l'11 Novembre 2007, nella stazione di Badia al Pino, vicino Arezzo, nell'Autostrada A1. L'ultimo grado di giudizio ha confermato la condanna a 9 anni e 4 mesi con l'accusa di omicidio volontario inflitta all'agente nel secondo grado di giudizio (capovolgendo la sentenza del primo grado, in cui Spaccarotella era stato accusato di omicidio colposo, e condannato a sei anni). Tra i tanti articoli che sono circolati dall'immediato post-sentenza, vorremmo condividere sulle nostre pagine quello scritto da Maurizio Martucci, giornalista e scrittore, scritto su "Il Fatto Quotidiano".


"Gabriele Sandri, giustizia giusta.

Omicidio volontario, è andata come doveva andare. Una sentenza definitiva che consegna alle patrie galere un pistolero che scambia l’autostrada più trafficata d’Italia in un far west, sfoderando dalla fondina l’arma d’ordinanza, esplodendo due colpi di rivoltella, uno ad altezza d’uomo e contro una macchina in transito nell’altra carreggiata, con cinque giovani a bordo. Uno lo ammazza. “Il diritto non è un terno all’otto – ha detto ieri in Corte Suprema di Cassazione il Procuratore Generale Francesco Iacoviellose pensassimo che lo sparatore fosse un pregiudicato, qualsiasi giudice impiegherebbe 20 secondi a condannarlo. Se invece pensassimo che a sparare fosse un tifoso, sarebbe stato condannato in 40 secondi”. Al di là della timing, è l’elementare principio della legge uguale per tutti. Perché l’11 Novembre 2007 sparò e uccise Luigi Spaccarotella, agente della Polizia Stradale, in servizio proprio su quel tratto autostradale.

Ultras contro polizia, tifosi ACAB contro tutori dell’ordine, come in un film. Su questa dicotomia si è cercato di far ruotare l’impalcatura immaginaria del processo, ma anche il dibattito nell’opinione pubblica. Quanto di più depistante per coprire impulsività e irrazionalità alla base dell’omicidio di Gabriele Sandri. Perché quando il galeotto Spaccarotella decise di esplodere il colpo mortale, Gabbo non era stato riconosciuto come sostenitore laziale (non aveva bandiere né sciarpe). Perché, per assurdo, anche se Sandri fosse stato il peggior pregiudicato e il più efferato criminale ricercato sulla faccia della terra, per come sono andati i fatti, riferiti da 5 testimoni super partes (pure una guida turistica giapponese!), Gabbo non meritava di essere ucciso in quel modo barbaro. Sparato a da una parte all’altra dell’autostrada, come una preda sacrificata al poligono di tiro. Sarebbe bastato semplicemente prendere il numero di targa della sua macchina, avvertire e chiudere i caselli dell’A1 per procedere all’identificazione degli occupanti del veicolo. Punto e basta. Nel rispetto di regole, legge e diritto. La cosa più normale del mondo che un pubblico ufficiale, codice penale alla mano, può e deve fare.

“Mi è stato riferito di alcune gravissime dichiarazioni rilasciate stamattina su Canale 5 dall’onorevole Daniela Santanché – scrive oggi su Facebook Giorgio Sandri, riferendosi ad un attacco della berlusconiana alla sentenza – significa infangare per l’ennesima volta l’operato e l’indipendenza della magistratura, omettendo tre gradi di giudizio. La politica deve capire che c’è un limite a tutto: dopo Ruby nipote di Mubarak… si vuol dire che Gabriele si è ucciso da solo? E che Spaccarotella è innocente? C’è chi continua a soffiare sul fuoco nel tentativo di contrapporre le tifoserie alle forze dell’ordine. L’Italia deve trovare il coraggio di cambiare.” Come dargli torto? Come continuare a sostenere l’insostenibile, solo per utilitaristici tornaconto personali e pure di basso profilo politico? Perché ostinarsi a negare evidenza e realtà dei fatti, nonostante l’autorevolezza del pronunciamento del vertice della giurisdizione ordinaria?

Mi avete condannato prima voi della stampa. I processi si fanno nei tribunali, non in televisione”, ha detto ieri sera un arrabbiatissimo Luigi Spaccarotella ai microfoni del Tg1, dimenticandosi che proprio un tribunale (e non massmedia e piazza forcaiola) l’ha condannato a 9 anni e 4 mesi di carcere, con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Strano che Spaccarotella dimentichi i tempi in cui aveva tentato di utilizzare stampa e tv per invertire i ruoli di vittima e carnefice. E’ ancora on-line un servizio fotografico in esclusiva per L’Espresso che lo ritrae in un candido abito bianco da buon samaritano sulla scena del delitto. E come dimenticarsi le performance in simultanea al Tg2, su Sky e Canale 5, in cui si sperticò a cambiare (ad usum delphini) la versione dei fatti, negandosi poi all’interrogatorio in aula davanti ai giudici? E come non ricordare l’apparizione a Quarto Grado su Rete 4, in cui percorse mediaticamente la pista della pietas cristiana e della captatio benevolentiae, presentandosi a tiro di telecamera, strappa lacrime, con un rosario in mano?

L’uccisione di Gabriele Sandri, una giornata buia della Repubblica, fu il sottotitolo del mio libro uscito nel 2008, in libreria prima ancora della fase dibattimentale in Corte d’Assise. Già all’epoca, analizzando in un’inchiesta verità il caso, senza tabù né peli sulla lingua scrissi apertamente che si trattava di omicidio volontario. Watchdog function, quasi un secolo fa ripeteva Lord John Reiht, storico direttore della BBC. Evidentemente non mi ero sbagliato."
Maurizio Martucci

Fonte: Il Fatto Quotidiano , 15 Febbraio 2012

sabato 11 febbraio 2012

Non voglio mica la luna

Nelle ultime settimane abbiamo potuto assistere a delle strane dichiarazioni, in ordine di apparizione, di Martone, Monti e Cancellieri, che senza dubbio ci spingono – noi appartenenti alle giovani generazioni - ad una domanda più che lecita: “Ma che vi abbiamo fatto di male per meritarci questo accanimento?”.

Si perché, passi il “bamboccioni” del fu-Padoa Schioppa. Passi una delle tante boutade del Cavaliere sull’andare a lavorare all’estero (oltretutto, di fronte alla folla di Atreju, con noi presenti che ci guardavamo tra l’incredulo e l’incazzato), e per cui si sollevarono comunque polveroni su polveroni. Ma tre di fila, in rapida successione, dette da tre rappresentanti del governo apparentemente più sobrio che l’Italia abbia mai visto, ci lasciano perplessi.
Cominciamo dall’ultima, di pochi giorni fa, della Cancellieri, in cui il ministro, in poche parole, dichiara un malcelato disprezzo verso quell’Italietta che, rispetto all’Europa, è mentalmente ferma al posto fisso vicino a mamma e papà, aggiungendolo al carico alle dichiarazioni – con annesso diritto di mal interpretazione – del Professor Monti che ci fa capire senza troppi giri di parole che per noi, nuove leve d’Italia, il posto fisso sarà solo un “brutto” ricordo del passato, liquidandolo addirittura come monotono. E invitandoci a prendere in considerazione l’idea di un futuro lontano dall’Italia (a ben vedere simili alle parole di Berlusconi, ma con tono decisamente meno giocondo, e senza però il sollevarsi dell’opinione pubblica, stavolta). E per ultimo le parole del sottosegretario Martone, il più giovane del tecnico team di governo, secondo cui chi non si laurea entro i 28 anni è uno “sfigato”, senza troppi giri di parole, senza casi specifici, senza se e senza ma.


Prese singolarmente, sono dichiarazioni che lascerebbero il tempo che trovano. Ma unendo i pezzi del puzzle, ne esce fuori un quadretto da far mettere le mani nei capelli.
Ma oltre alla sacrosanta domanda che ci viene in mente (“Ma che vi abbiamo fatto di male?” di cui sopra), si aggiungono anche una serie di riflessioni. Giuste o sbagliate che siano.
Innanzitutto, cominciamo dal dire che il problema forse non sono tanto i giovani, il posto fisso, o lo stare vicino a casa (su cui, sinceramente, in questi termini, non ci vediamo granchè di errato). Quanto della mancanza di opportunità di entrare nel mercato del lavoro.
Parlare di posto fisso, nell’epoca del precariato, sembrerebbe appunto un’utopia. E forse, proprio perché giovani, siamo utopici. Forse anche questo è un segno dei tempi. Un tempo si rincorrevano le ideologie, troppo utopiche per essere attuate alla lettera. Oggi si insegue un posto fisso e una stabilità.
Ma torniamo a noi. Parlare in quest’epoca storica di posto fisso, come dicevamo, sembrerebbe un’utopia, sarebbe poco opportuno. Il problema è che, di contro, questa generazione si ritrova davanti un precariato che non ha nulla a che vedere con quello che viene applicato nel resto d’Europa, e al quale i nostri “tecno”-ministri si ispirano. Ovvero quella “flexicurity” che però è attuabile solo se ci sono molte opportunità di lavoro. Altrimenti ci si ritrova in quella “tonnara sociale” che è l’attuale sistema, la cui rete sono i pochi posti di lavoro e mal retribuiti, e le prede i milioni di giovani che fanno anche a gara per accaparrarsi il posto (che tralaltro spesso non tiene nemmeno conto delle varie competenze e degli studi di ognuno) pur di iniziare quell’esperienza necessaria per entrare nel mercato del lavoro, e cercare di ambire a posti più qualificanti.
E senza contare dimenticare quei giovani (ma anche non più giovani) che non hanno scelto un percorso universitario, ma si sono riversati nel mondo del lavoro, nelle fabbriche, nelle aziende, che si trovano a lottare con le scelte delocalizzatrici dei loro datori di lavoro.
A questo, si aggiunga anche la difficoltà di poter accedere ad un mutuo, per il quale bisogna rilasciare delle garanzie che l’attuale sistema lavorativo precario non può dare alle banche, e la conseguente difficoltà di abbandonare mamma e papà ancora alla veneranda età di 30 e passa anni per potersi fare una famiglia.
Il quadro appena accennato certo non è dei migliori, e in qualche modo, si, è anche normale rifugiarsi nell’utopia del posto fisso, monotono, ma vicino a mamma e papà, e alle proprie radici e tradizioni.
E se lo dicono dei ragazzi che, per continuare a studiare, sono andati chilometri e chilometri lontano da casa, abbandonando quel nido che la Cancellieri non vorrebbe neanche sentir nominare, e vivendo delle esperienze estranee a quelle del nucleo familiare, forse un minimo c’è da starci a sentire. Anche perchè, non stiamo certo chiedendo la luna, ma solo la certezza di avere un futuro.
Soprattutto perché siamo noi quei giovani a cui il ministro Fornero si è rivolta all’inaugurazone dell’anno accademico all’Università di Torino, secondo cui “se non riusciremo a convincere i giovani del tentativo di questo governo, avremo fallito il nostro compito, perché è per dare prospettive ai giovani che questo governo è stato chiamato. Ad oggi, sinceramente, possiamo dire che no, non ci hanno per niente convinto. Non è maltrattandoci che ci convinceranno.

giovedì 9 febbraio 2012

10 Febbraio : uccisi perchè italiani


Foiba, parola che rimanda ad una peculiarità geografica del territorio istriano, cavità profonde anche duecento metri. Eppure non immaginiamo come la geografia possa diventare complice dei più grandi delitti, feroci massacri della nostra storia recente. Perché prima nel 1943 e poi a partire dall’Aprile del 1945, migliaia di cittadini italiani vennero gettati in molte delle 1700 foibe dell’Istria, i più fortunati toccarono “il fondo” già morti, altri ancora vivi. Infatti, i partigiani comunisti jugoslavi, guidati da Tito, vista la certezza della sconfitta del fascismo in Italia, volevano annettere alla futura “grande” Jugoslavia, quei territori come l’Istria, la Dalmazia e la città di Fiume, facenti parte integrante dello Stato italiano e abitati in grande maggioranza da italiani e in minoranza da slavi. Il rapporto non fu quasi mai facile, soprattutto dopo che la cultura nazionalista di fine XIX secolo si diffuse in Europa. I rapporti si complicarono soprattutto negli anni del fascismo, con il forte carattere patriottico del regime e l’uso obbligato della lingua italiana nei luoghi pubblici, anche per chi, da sempre, parlava lo sloveno. Così con la sconfitta dell’Italia nella seconda guerra mondiale, iniziò per i “titini”(come venivano definiti i seguaci di Tito) il periodo della vendetta e di una vera e propria pulizia etnica. Il progetto era: esiliare gli italiani, se necessario eliminarli fisicamente. Così fu.
Non era una questione di appartenenza politica o sociale, ma una questione di nazionalità e di lingua. Tutti coloro che non volevano collaborare venivano imprigionati, legati l’uno con l’altro all’imbocco della foiba e fucilati, in questo modo i corpi precipitavano in fondo, dove anche se si era rimasti vivi era impossibile risalirne. Vennero gettati uomini, donne e bambini, senza distinzione: ecco l’uguaglianza di genere dei partigiani jugoslavi.

L’omertà non risiede solo nel sud Italia, infatti molti furono gli italiani che accettarono lo status quo senza dire nulla, sia in Istria e in Dalmazia che nel resto d’Italia. Molti addirittura collaborarono, è il caso di molti militanti comunisti italiani, che speravano di costruire dopo la guerra, il paradiso in terra con il comunismo di Tito. Forse fecero quello in terra, ma quello nell’aldilà probabilmente no. I cosiddetti “infobiati”, furono circa 20.000 persone, alcuni studiosi dicono 30.000 altri 10.000, quantificare è difficile perché molti corpi non vennero recuperati, le autorità dei paesi del Balcani, anche in tempi recenti, non hanno mai voluto collaborare alle indagini e cosa ancor più grave l’Italia della Costituzione, si mosse troppo tardi per capirne di più. Del resto, per molto tempo, i soli a sapere come le cose andarono furono i profughi italiani che lasciarono le loro case, la loro terra, le radici che furono e quelle che dovevano essere. Questi furono circa 350.000. Quando molti di questi arrivarono a Bologna dopo il 25 Aprile del 1945, perchè le truppe della Repubblica Sociale Italiana dovettero abbandonarli per la sconfitta subita, furono accolti dal grido “Fascisti”, furono scherniti e abbandonati . E c’è chi dice che gli italiani sono il popolo più solidale nella misera e nella difficoltà.
Del resto tutto andava bene se chi doveva essere giustiziato fu giustiziato, se la Chiesa e la sezione del Partito comunista erano aperti; e ci si dimentica delle sofferenze dei nostri fratelli quando arriva il “ Piano Marshall” dagli Stati Uniti a portarci benessere.

Solo recentemente il Parlamento ha stabilito il “10 febbraio” come giornata del ricordo. Ci sono voluti più di sessant’anni per onorare degli italiani uccisi in quanto italiani, per ricordare italiani che furono costretti ad abbandonare le loro case. Si spera che almeno chi aveva la responsabilità di aiutare quella gente, chi doveva parlare ai ragazzi nelle scuole e nelle Università di quanto è accaduto, non abbia la coscienza apposto, ma forse per come a volte va l’Italia è molto probabile che queste persone sostengano di avere avuto ragione. Allora chissà, forse vorranno restare o sono restati nel Paradiso terreno di Tito, Stalin e di buona parte del PCI italiano.

Gabriele

martedì 7 febbraio 2012

Peter Pan: "C'è chi vuole diventare grande in Italia"


« L’eco del ministro Cancellieri al sottosegretario Martone e al Premier Monti ci convince che i tecnici non hanno fiducia nelle giovani generazioni. Continuate a offenderci in tanti modi, a dipingerci come sfigati, monotoni, mammoni. Siamo in tanti a vivere lontani da casa, ma data la scarsa fiducia che i baroni al Governo hanno delle nostre generazioni saremo costretti a restare lontani dall’Italia. Ci vorreste rigidi come gli svedesi, silenziosi come i danesi, freddi come i tedeschi, vecchi come voi, ma noi resteremo sempre quelli che siamo: giovani. » - dichiara l’eterno fanciullo Peter Pan. I dirigenti della comunità politica di Arcadia, vicina al PdL, si immedesimano ironicamente nell'eterno ragazzo per replicare all'infelice battuta del ministro dell'Interno. E prosegue: «Le politiche di flexicurity che volete adottare mirano solo ed esclusivamente all’anello debole della catena, infischiandosene dei poteri forti che sobriamente difendete. Inutile polemizzare sul posto fisso, noi non l’abbiamo mai conosciuto; noi crediamo nella flessibilità a parità di garanzie e soprattutto in presenza di opportunità lavorative. Piuttosto che tornare penso che resterò qui con Capitan Uncino, anche se devo ammettere che il mio sogno nel cassetto è di diventar grande in Italia".« Faccio più di un lavoro al giorno, non ho garanzie, non riesco a far quadrare i conti e ci vorrebbe la bacchetta magica per comprare nuovi vestiti. Di firmare un contratto non se ne parla, pare che non convenga assicurarmi. Volevo comprar casa e lasciare quella di famiglia, ma senza garanzie non mi concedono alcun mutuo.» ha aggiunto Cenerentola. Lo sberleffo dei giovani di Arcadia continua con l'immedesimazione nella sognatrice protagonista della favola di Walt Disney. «Mi piacerebbe anche metter su famiglia quando troverò un ragazzo - ormai non più necessariamente un principe azzurro- ma di questi tempi dicono che sia una cosa dispendiosa. Ho tante ambizioni, per questo non voglio mollare. Mi piacerebbe» - conclude - «però che ci siano maggiori opportunità e rispetto per il valore di tanti giovani come me che, nonostante l’impegno i sacrifici, non vengono utilizzati per la crescita di questo paese. In fondo, non stiamo mica chiedendo la luna, ma solo un futuro degno di tale nome ».