martedì 13 maggio 2008

Un'analisi


Dopo le ben note polemiche seguite alla trasmissione di Fabio Fazio, penso che ognuno di noi si sia interrogato circa la validità di alcune affermazioni. La telenovela Schifani-Travaglio è ciò che di più negletto potesse offrire il primo scorcio di Terza Repubblica. Da cui vengono fuori manchevolezze e vuoti del nostro ordinamento. Da questa triste vicenda, simbolo di un'Italia in ribasso, ritengo si possano assumere come veritiere due sole informazioni: la nostra è una videodemocrazia e i talk-show politici (o presunti tali) dovrebbero essere regolati in maniera precisa da apposite leggi.


Nel vocabolario e nella pratica della professione giornalistica, la parola "verità" ha un ruolo immanente. Al contempo fondativo e legato all'evoluzione della stessa professione. Del resto i fatti, gli accadimenti, narrati dalle pagine dei giornali o attraverso qualsiasi agenzia di informazione, nel momento in cui non rispondessero alla realtà, perderebbero ogni forma di credibilità, e si cadrebbe nel reato di diffamazione a mezzo stampa. Immaginiamo, quindi, un omicidio avvenuto in una tempestosa notte di settembre. La vittima, al di sopra di ogni sospetto, ha evidenti segni di colluttazione sul corpo ed è stesa sul letto della sua abitazione. C'è un reo confesso. Se ci fermassimo qui, pur rispettando la versione cronologica dei fatti, la storia è già scritta: "Ucciso notabile dello stato, il killer ha confessato". Se invece dalla confessione venisse fuori che la vittima aveva evidenti debiti di gioco con il suo carnefice, e lo aveva attirato nella sua tranquilla abitazione romana per ucciderlo a sua volta, evidentemente la storia avrebbe connotati differenti. Che fare in questa situazione? Aspettare le risposte della magistratura, attenendosi nella maniera più chiara possibile alla naturale evoluzione delle indagini. Ma soprattutto, visti anche i tristi esempi di tangentopoli, astenersi del dare giudizi definitivi a mezzo stampa (quindi anche in tv, radio e internet).

Ciò che è avvenuto negli studi di Fazio è oggettivamente diverso. C'è un'affermazione di senso di compiuto che è il nodo di tutta la vicenda. Una perfetta operazione di marketing, autorefernziale, tale da sponsorizzare il libro del giornalista. "Schifani ha avuto delle amicizie con dei mafiosi". E' qui che si gioca la partita. La spiegazione di questa informazione rimanda direttamente al volume dello stesso autore. Lasciando, però, da un lato la curiosità di andare a fondo e dall'altro una notizia apparentemente incontrovertibile. Il quadro ricostruito da Travaglio si arricchisce della presenza di Lirio Abbate, giornalista dell'Ansa, tristemente noto per essere stato colpito da minacce di morte da parte della mafia palermitana e costretto a vivere sotto scorta. Il disegno è chiaro, e nemmeno troppo velato: c'è chi la mafia la combatte, pagandone lo scotto, e chi invece vi è "amico", seduto in Parlamento, al Senato, sullo scranno più alto.

Facendo un veloce passo indietro, e senza sostituirmi al ruolo degli eminenti giuristi di Arcadia, c'è da dire che la professione giornalistica in Italia viene fatta risalire agli articoli 2 e 21 della nostra costituzione (art.2- diritti inviolabili dell'uomo, da cui diritto ad essere informato e di informare; art.21- diritto di espressione del pensiero) ed è regolata dalle leggi 47/1948 (legge sulla stampa) e dalla 69/1963 (che istituisce l'ordine). Al contempo, un vero ruolo guida se l'è guadagnato la Corte di Cassazione, sentenza 5259/1984, che ha messo i paletti per la corretta informazione; "quando concorrano le seguenti tre condizioni: 1) utilità sociale dell'informazione; 2) verità (oggettiva o anche soltanto putativa purché, in quest'ultimo caso, frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti; 3) forma "civile" della esposizione dei fatti e della loro valutazione: cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle persone, sì da non essere mai consentita l'offesa triviale o irridente i più umani sentimenti".

In più aggiunge che lo "lo sleale difetto di chiarezza sussiste quando il giornalista, al fine di sottrarsi alle responsabilità che comporterebbero univoche informazioni o critiche senza, peraltro, rinunciare a trasmetterle in qualche modo al lettore, ricorre - con particolare riferimento a quanto i giudici di merito hanno nella specie accertato - ad uno dei seguenti subdoli espedienti. [...] "b) agli accostamenti suggestionanti (conseguiti anche mediante la semplice sequenza in un testo di proposizioni autonome, non legate cioè da alcun esplicito vincolo sintattico) di fatti che si riferiscono alla persona che si vuol mettere in cattiva luce con altri fatti (presenti o passati, ma comunque sempre in qualche modo negativi per la reputazione) concernenti altre persone estranee ovvero con giudizi (anch'essi ovviamente sempre negativi) apparentemente espressi in forma generale ed astratta e come tali ineccepibili (come ad esempio, l'affermazione il furto è sempre da condannare) ma che, invece, per il contesto in cui sono inseriti, il lettore riferisce inevitabilmente a persone ben determinate;"

Rai, terra (anche) dei grilli parlanti e di silenzi assordanti.

Nessun commento: